L’esperienza cristiana dell’Isolotto

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L’esperienza dell’Isolotto, così come si sviluppa a partire dagli anni ’50 fino al suo culmine nello scontro tra la comunità e il vescovo Florit a cavallo tra il 68 e il 69, testimonia un modo nuovo di vivere il cattolicesimo, che poco ricorda le esperienze passate, a volte impropriamente accostategli: né Savonarola, “profeta che non ascoltava che Dio”, “ma la cui predicazione non attingeva affatto al tessuto connettivo di un’esperienza comunitaria”, né i Francescani spirituali, “mistici solitari” che “testimoniavano soli in una società nella quale non avevano niente da assorbire”. 

Qui risiede dunque l’interesse nel riscoprire queste vicende ai giorni nostri, pubblicando in italiano, a cinquant’anni di distanza, il libro di Jacques Servien, scritto proprio mentre quei fatti cruciali erano in via di svolgimento, e dei quali l’autore fu partecipe e testimone diretto: c’è la messa in discussione della gerarchia, che non permette che “una circolazione unilaterale delle idee”, e il tentativo di “smantellare il cattolicesimo come infrastruttura dell’ordine stabilito”. Don Enzo Mazzi, parroco dell’Isolotto, rifiutava di incarnare tanto la figura del “prete-reverendo-amministratore dei beni della Chiesa”, quanto quella del “mistico autoritario e solitario”, percependo i limiti di “una visione mistico-individualistica della fede”

Tutto ciò non nasce dal nulla. Il seme era stato gettato quasi mezzo secolo prima, e coerentemente l’autore evita di limitarsi alla cronaca di quanto accade nel quartiere fiorentino al tempo in cui scriveva per cercare di ricostruirne il retroterra. “Non è mai”, a suo dire, “un movimento di opinione ma un uomo solo che permette, trasforma o impone una nuova visione della fede”. Così la storia del cattolicesimo fiorentino è ripercorsa attraverso le vicende dei suoi protagonisti: da Don Facibeni, creatore dell’Opera della Madonnina del Grappa, al cardinale Elia Dalla Costa, “seconda colonna del cattolicesimo fiorentino”, che si impegnò personalmente per risolvere la crisi della Pignone e nel 58 prese le parti degli operai delle officine Galileo a rischio di licenziamento. Con Giorgio La Pira poi “il campo di indagine si allarga alla città: il cattolicesimo si inserisce negli ingranaggi politici, tenta di animarli e di prenderne il dominio”. Sensibile interprete di una coincidenza di fatti quali “l’indebolimento delle ideologie dogmatiche e la nascita di un dialogo tra comunisti e cristiani”, si rese artefice di un clima che avrebbe preparato sia “i tempi conciliari che l’apertura a sinistra”.

“Questi fondamenti religiosi […] suscitarono tutta una diaspora di esperienze diverse che interessò la generazione successiva, quella dei preti che toccavano la cinquantina”. Meglio attrezzati dei loro “padri”, la misura della loro azione resta sempre “l’essere nel mondo senza essere del mondo”. Si parte qui da padre Balducci, fondatore della rivista “Testimonianze”, che tenta “l’integrazione tra tutta una cultura moderna laica  e una visione cattolica” e il recupero financo del marxismo “in ciò che ha di positivo per l’interpretazione del nostro mondo”: di fatto egli “non accetta più come paradigma di analisi sociale il passaggio vertiginoso da una parabola del Vangelo a una determinata situazione concreta”.

Dopo aver parlato “dell’intellettuale cittadino” l’autore si sofferma sull’intellettuale “di campagna”, padre Giovanni Vannucci, fondatore della comunità delle Stinche, per il quale la povertà non è né una bandiera da sventolare né un “principio totemico”, ma “è amata per la libertà che permette”.

Si arriva quindi a Don Milani e alla sua scuola “classista”, vista come mezzo per livellare le disuguaglianze sociali e quindi paradossalmente per togliere la ragion d’essere allo stesso odio di classe. “A noi non interessa tanto colmare l’ignoranza”, scrive Milani, “quanto l’abisso della differenza”.

Si finisce con Don Borghi, che studia le organizzazioni francesi e belghe e si appassiona alla nascente esperienza dei “preti operai” al punto da entrare nel 1950 alla fonderia Pignone, e successivamente in una fabbrica di pneumatici, la Gover, iscrivendosi anche alla CGIL. In solidarietà con l’Isolotto egli diede infine le dimissioni dalla sua carica di parroco, persuaso dell’incompatibilità di tale ruolo col suo mestiere di operaio.

Ecco che in questo terreno in fermento getta le sue radici l’esperienza dell’Isolotto, prendendo vita attorno alla figura di don Enzo Mazzi. Numerose furono le tentazioni che la comunità incontrò, e che presero l’aspetto dell’istituzione, dell’organizzazione, della burocrazia: risultarono così quasi provvidenziali le misure disciplinari del potere ecclesiastico, che rilanciarono la coesione e la libera discussione. Tuttavia, alla fine, il terreno dello scontro, fatto di astuzie, doppio gioco, dichiarazioni mediatiche, si rivelò poco congeniale alla comunità. Come nota l’autore “obbligarli a parlare è abile perché è facile coglierli in flagrante reato di contraddizione, di confusione, di uso del Vangelo a fini troppo strettamente politici. Ma vederli vivere è sorprendente”.

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